C'era questa collina, a poca distanza dalla città, che si ergeva solitaria dal galoppo forsennato dei colli e delle vallette vicine, dei sentieri e dei muri a secco che incrociavano quasi ovunque. Una collina essenziale come nel disegno di un bambino, con in cima tre alberi enormi ed identici. Sul cucuzzulo, tra i tre tronchi, un piccolo spiazzo quasi calvo dove la luce non arrivava e la pioggia faticava a scendere, dove il sole non picchiava quasi mai e la neve spolverava solamente.
C'era questo bambino cui regalarono una macchina fotografica che per i suoi 5 anni era anche troppo seria, ma il bambino aveva intenzioni serie, ed i conti tornarono subito quando i genitori e gli zii videro il bambino prendere macchina, obiettivi e cavalletto, disporsi alla distanza meticolosamente ritenuta ideale, e dopo due ore di preparazione scattare un'unica foto alla collina ed ai suoi tre alti guardiani. Ed il bambino fece così per tutto quel mese, che era un luglio di sole confitto in cielo e cicale che friniscono forte. E continuò per agosto e settembre quel bambino, a scattare sempre una sola foto al giorno, ogni giorno. E quando ne accumulava una dozzina nel caricatore, allora le faceva stampare, ed erano tutte belle e così identiche nella posa, così diverse nei colori e nelle luci e nei ricordi suscitati, che i genitori presero ad amarle davvero, quelle foto. Ed il bambino non smise di scattare la sua foto quotidiana nemmeno durante l'inverno bianco e grigio, tra refoli di nebbia che dei guardiani si vedevano solo le basi larghe dei tronchi, né sotto la neve che cadeva morbida e leggera o in mezzo a tempeste che sferzavano il viso e spaccavano la pelle. Nè smise in primavera. Così, ad un anno dal compleanno, gli fu regalato il necessario per allestire una piccola camera oscura, ed il risultato lo si vide già quella sera stessa, anche se nessuno capì dove il bambino avesse imparato ciò che dimostrava di sapere.
E tutto continuò così, accumulando una foto al giorno, 365 foto ogni anno e 366 ogni anno bisestile. Le rare volte in cui il bambino era troppo ammalato, la foto veniva commissionata al nonno, o al padre, ma le occasioni furono davvero rare.
Il bambino crebbe, divenne un ragazzo, e a 17 anni scattò la sua foto quotidiana poco prima di fare l'amore con la sua ragazza, lì nell'ombra dei tre guardiani sorridenti. A 22 anni scattò la foto nel marzo della sua laurea. E a 25 anni scattò la foto all'alba del giorno del suo matrimonio. Il bambino, che sempre per me resterà tale, continuò anno dopo anno, ed il passaparola lo rese conosciuto, noto, quasi famoso, tanto che ogni due o tre anni veniva allestita una mostra che esponeva una sola foto: una sola foto declinata in migliaia di immagini differenti, e anche i più scettici si perdevano per ore ed ore a passeggiare davanti a quella pellicola che snocciolava le stagioni e le lasciava correre nella memoria, nei ricordi, nelle sensazioni che erompevano potenti non si sapeva da dove. Ed alle mostre c'era chi piangeva, chi rideva, chi andava via sorridendo e chi abbracciava persone che non stringeva da tempo.
Il bambino divenne un uomo, ed i suoi figli saltavano intorno al cavalletto ogni giorno mentre l'uomo-bambino scattava la foto. Ma smisero man mano che a loro volta facevano l'amore, e si sposavano, e andavano a vivere e lavorare altrove. Il bambino che era diventato uomo divenne anziano, e la collina era sempre lì, sempre immobile e verde o brulla o bianca di neve, né gli alberi erano cresciuti, o per qualche verso cambiati. L'anziano inziò a incurvarsi nella vecchiaia, e tutti ormai raccontavano che il vecchio fosse un'emanazione della natura, di un mondo dimenticato ed ormai inosservato. Lui continuava a fotografare la sua musa, e così fece il giorno in cui morì la sua amata moglie, o quando uno dei nipotini ormai ragazzo fatto, partito in guerra, cadde vittima di una mitraglia.
Il mito si diffuse e ormai la folla si radunava quotidianamente per assistere al rito.
Fino a che non decisero, in qualche stanza odorosa di inchiostro, grafite e carta lucida, che di lì sarebbe passato un treno che correva velocissimo.
E dalla sera al mattino vennero e recintarono. E il vecchio fotografò la sua musa imprigionata.
Vennero e abbatterono gli alberi. La gente imprecò ed urlò e pianse. Il vecchio fotografò la sua musa senza guardiani.
Vennero e le ruspe mangiarono via la sommità della collina, ed il vecchio fotografò la sua musa decapitata.
Vennerò e fecero esplodere la collina, e le pietre fischiarono, la polvere crebbe in una nuvola enorme che ricoprì tutto, che si distese su chi era venuo ad assistere e protestare, a lanciare pietre contro gli operai, a sputare agli ingegneri disperandosi o imprecando. Quando la polvere si sollevò la collina non c'era più. Il vecchio invece era lì, con la sua macchina, con la morte della musa imprigionata tra sali d'argento e chimiche meravigliosamente semplici, vive ed efficaci, ed ormai così tecnologicamente superate da essere quasi antiche.
E nel silenzio un bambino si staccò dai genitori attoniti ed immobili, corse incontro al vecchio e poi gli chiese "ed ora cosa farai?". Ed il vecchio sorrise ed accarezzò la testa del bambino. "Ora andrò da qualche altra parte, perché sono stanco ed ho voglia di vedere il mondo. Questa tienila tu, se ti va. Ma attento, che la tua musa, a volte, è la tua prigione". Poi batté le mani, spolverò la polvere dalla giacca, calcò il cappello, ed incurvato, lento e placidamente, si incamminò sulla strada. Nessuno lo vide più.