Nessuno di chi dovesse capitare qui credo possa resistere fino alla fine di questo racconto scritto in fretta e scritto male. Cazzate di fantasia generate però da qualcosa che non è fantasia, purtroppo: QUESTO
Lo chiamano Sant’Elmo, ma si chiama Guglielmo. Contratto come radici di nocciolo, urla a migliaia di studenti accendendoli, fila su fila, in una reazione a catena che genera un calore insostenibile. In giacca di tweed e due centimetri di barba sotto altrettanti di capelli scuri, ha lineamenti sconvolti dalla furia, occhi ardenti come tizzoni; ma quando si abbassano, quegli occhi improvvisamente diventano schegge di ghiaccio. Nessuno lo vede mai, questo cambio di stato e temperatura. Gli studenti si alzano, sollevano e urlano, battono mani, piedi e pugni, sciamano fuori, si riuniscono e coagulano: emboli di furia trattenuta che intasano le arterie della città e corrono veloci verso le piazze. Sant’Elmo alza pugni, stringe mani, abbraccia spalle, si defila.
Guglielmo sale le ampie scale, i passi hanno eco nude che intagliano la penombra. La stanza è vasta, trafitta dai piani di luce filtrati dalle persiane; gli slogan e le sirene arrivano ovattate, qui. Il P. lo attende, gli fa un cenno, Guglielmo siede, il P. sorride: “Bravo Guglielmo, bravo. E’ quasi tempo, ormai, sei pronto?” Guglielmo sussulta, solo un piccolo sussulto involontario che il P. accoglie con un ghigno giallo di nicotina. "Sono pronto, se ritiene che sia il momento, anche se ancora non vedo come io, proprio e solo io, possa iniziare la reazione". Il P. infila la sigaretta sul bocchino, accende, soffia il fumo ricadendo sullo schienale della poltrona. “Ogni azione ha eco, e riflessi.” Inizia a salmodiare lento. “Ciò che fai tu sarà sostenuto e imitato, sarà moltiplicato. Perché è questo ciò che vogliono, che è più facile. Giovani incauti, ingenui, tu sarai la scintilla che loro non scoccherebbero mai. La scintilla che li incendierà, e consumerà. Fidati di me. Io lo conosco bene, questo gioco.”
Guglielmo scende le scale, esce dai giardini inglesi del retro, i suoi percorsi diventano sempre più trasversi finché non cammina più ma salta e scavalca, striscia e arrampica. Infine sbuca nel cortile, raggiunge l’aula dove c’è il campo base. "Dove sei stato?", gli chiede lei. Lui la vede e la scopre più bella che mai, la ignora e accende una sigaretta. "A pensare, cosa che qui faccio solo io". Lei accusa il colpo, si ritira dietro un’altra sigaretta e scivola via. Lui concede due lacrime ai propri occhi, una di struggimento, una di furore, poi è di nuovo ghiaccio sopra la nausea e le emozioni, gelo preparatorio al fuoco che dovrà incendiare, bruciare e consumare questi giovani, ingenui sprovveduti.
Le poderose onde della mareggiata studentesca hanno tratto linfa dagli insegnanti, dai ragazzi più giovani, da quella parte di opinione pubblica che dice “devono contestare, perché devono trovare autoconsapevolezza, cosa che a ogni livello e da troppi anni si falcia e schiaccia in ogni modo possibile”. La mareggiata è diventata un uragano che ha ruggito in piazza e in televisione, sui quotidiani e alla radio. L’uragano, ora, si sta raccogliendo in onda anomala. Una, enorme, gigantesca, con una forza incredibile che cresce ogni istante e che dovrà abbattersi su qualcosa. Il P. lo sa, lo ha previsto ed incoraggiato. Passanti e turisti, bambini e curiosi, anziani e giovani, nessuno conta o ha un qualche valore. Al P. non interessa se chi rimarrà sul selciato col cranio spaccato avrà una divisa blu e grigia, nera e rossa, o variopinta di lana e cotone.
40 giorni prima che se ne parlasse per la prima volta il P. aveva già visto, immaginato e previsto; aveva convocato Guglielmo e una dozzina di altri: “li infiltrerete, perché è ora di dare il colpo di grazia. Li infiltrerete e farete crescere il movimento come loro non saprebbero fare. E poi li infiammerete e tratterrete, getterete benzina serbando però i fiammiferi. Il calore… Il calore dovrà essere insopportabile, ma chiuso e compresso nelle vostre mani. E poi, quando io dirò che è il momento, voi accenderete quel fiammifero. Loro si scateneranno, devasteranno tutto e tutti, e urlando e colpendo travolgeranno il popolo; e noi li lasceremo fare. Per un po’. Quando la fiamma avrà arrostito la sopportazione – in nome di futili e stupidi cause – della gente; quando l’operaio troverà la sua auto bruciata e il panettiere il suo negozio saccheggiato allora noi, invocati, colpiremo. Spaccheremo gambe e braccia, costole e teste, schiacciando questo insensato desiderio di arbitrio nel suo stesso, debole sangue. A quel punto, finalmente, l’ordine ricostituito sarà quello definitivo, e la violenza invocata nello Stato a porre fine alla protesta diverrà, sul sangue e sulle schiene rotte di questi fragili teppisti, la vergogna che cementerà l’incapacità di affrancarsene e giudicarsi.
L’onda anomala cresce. Sant’Elmo, gli occhi stralunati, ha le corde vocali corrose a furia di spruzzare parole incendiarie. L’onda anomala ha raggiunto una mole impressionante, crepitante di furore, ma gli scontri sono pochi e deboli, per ora; sono solo prime fiammelle autonome che Sant’elmo deve soffocare per non disperdere quell’energia che dovrà essere indirizzata a tempo debito contro ogni possibile obiettivo, meglio se innocente, meglio ancora se indifeso e inutilmente fuori di ogni mira logica.
Le eco dei passi sono soffocate dal frastuono della pioggia che percuote i vetri. Manciate di sassi gettate da un titano furioso. La stanza è grigia di luce, grigia di tappeti e arazzi, grigia di fumo, gialla del ghigno del P. che fuma, guarda Guglielmo per lunghi minuti, e infine dice “è ora”. Guglielmo serra i pugni, si alza, esce, scende le scale. Il P. rimasto solo si frega le mani e addenta un pasticcino. Briciole di pasta frolla agli angoli molli della bocca, la manica del completo grigio le asporta in un gesto lento e mellifluo; poi il P. impala con forza la sigaretta sul bocchino e lo serra tra i denti; accende, inspira, e gettando fumo in uno spruzzo denso e bianco si lascia andare contro lo schienale. E ride, ride in sussulti, ride sempre più forte, a coprire la pioggia che urla contro i vetri.
L’indomani il vento teso schiaffeggia i platani e schiaccia a terra i salici del lungofiume. Il cielo scivola veloce in guizzi di piombo, oro e celeste. Collettivi da tutta Italia sono accampati per la città. Il P. attende nella sua stanza. I media sono focalizzati, monopolizzati dall’onda che è arrivata sulla capitale. Si sente nell’odore dei fuochi accesi per strada, di abiti umidi e kebab fumosi della sera prima, di legna riarsa e marijuana, di corpi accaldati riuniti in spazi ristretti a migliaia: si sente e si ode, si vede e si percepisce, che l’Onda sta per abbattersi. Le divise osservano, storcono il naso, fremono ma non intervengono, mentre Sant’Elmo e una dozzina d’altri richiamano all’ordine le loro prime linee, urlano e danno istruzioni, pompano adrenalina nei cervelli e calorie nelle vene, caricano gli animi e illustrano le strategie. Ora sarà guerra, l’atto finale, e le prime linee dovranno a loro volta infiammare e guidare, spiegare tattiche e chiamare a raccolta. Poi centinaia di migliaia di giovani si mettono in moto e le loro voci, i loro passi, sono un tuono che percuote il sole e spacca il cielo, mentre il popolo si chiude in casa e osserva spaventato, si chiede cosa facciano le divise e perché non disperdano questo esercito che si è messo in marcia.
Il P. attende, e fuma. Il monologo dei media è un flusso obnubilante di parole tutte identiche. I giovani si muovono, i giovani marciano. Il P. ride e addenta un piccolo bigné. I giovani si radunano e gli speaker hanno la voce che trema. Il P. ghigna e raccoglie la crema spruzzata sulla cravatta, la lecca e biascica. I giovani battono le strade e il popolo scappa e si rintana, i giornalisti vengono spintonati. Il P. fuma di nuovo lasciando impronte zuccherine sul bocchino di onice nero. I giovani muovono verso il colle, un flusso che come una marea sale verso le falde del monte. E il P. spegne la sigaretta. I giovani sono un mare che ha ridotto il colle a un’isola irraggiungibile. Il P. spalanca le finestre. I giovani chiedono una conferenza stampa e allestiscono installazioni multimediali da campo, le erigono in pochi secondi con generatori e impianti che compaiono tra la folla. Il P. siede di fronte agli schermi. “I giovani ci chiedono di trasmettere documenti visivi, audio e testuali dalle loro installazioni”. Il P. serra gli occhi in due fessure. Almeno metà dei media si rifiuta. Almeno metà dei media manda affanculo la direzione, gli ordini, le imposizioni e si connette. Il P. inizia a mugolare e strizza nel pugno un giallo bigné allo zabaione, la crema che sprizza tra le nocche bianche.
I video sono diversi, i video sono pressoché tutti uguali. Quello trasmesso dal maggior numero di canali mostra Guglielmo. Mostra Sant’Elmo dagli occhi attenti e concentrati, né gelidi né ardenti:
“quello che stiamo facendo è il riflesso di ciò che avremmo dovuto fare. In questi mesi io e alcuni altri siamo stati impegnati in un gioco due volte perfido: fingere di guidare i movimenti studenteschi essendo in realtà infiltrati, così da scatenare una rivolta violenta e incontrollata che portasse l’opinione pubblica a chiedere interventi contro gli studenti. Fingere di essere infiltrati per lasciare che le autorità più alte si scoprissero, documentando tutto ciò che state vedendo e che è trascorso nel teorico segreto di stato. Ciò che vogliono è togliere a ciascuno di noi, studente o pensionato, professore o operaio, la capacità di pensare. Ciò che noi vogliamo, oggi e da oggi, è togliere a questa casta sclerotica la capacità di decidere del nostro presente e del nostro futuro mirando alla perpetuazione di se stessa e del proprio potere che lassù si siede, concentra, e crogiola di se stesso. E’ ora che gli studenti, insieme ai lavoratori, i pensionati e chiunque altro, è ora che tutti noi cittadini di questo paese si chieda ed ottenga la remissione completa dell’intera schiera politica. Questo è l’atto che nel ’77 non fu portato a compimento. I responsabili della strategia istituzionale sono oggi i medesimi di allora. Qui, ai piedi dei loro troni, chiediamo che escano sotto il sole a guardare in faccia il popolo che da decenni cannibalizzano, e che rispondano di ciò che da troppo tempo ci impongono. Ogni azione, ha eco e riflessi…”
50 milioni di persone, schiacciate allo schermo del televisore, piantate sul monitor del computer, incollate alla radio, attendevano che un migliaio di completi e doppiopetto mostrasse la faccia al popolo che avrebbe dovuto governare e rispondesse alle accuse. Nessuno lo fece. L’indomani, i media di tutto il mondo titolavano immancabilmente “il civile colpo di stato del popolo italiano – 12 milioni di persone accorse nella capitale durante la notte, ed il flusso continua”.